“I professionisti della gravità non sanno di essere un GPS” - Il GPS nascosto nella gravità
«“Pistagna, tanto tu non combinerai mai niente nella vita.”
Così, dritto in faccia, con espressione disgustata come se stessi per attaccarle la peste, la mia prof di Biologia poco prima della maturità.
Ci ho messo un sacco prima di scrivere queste righe.
Se lo avessi fatto prima, avrei rischiato di cadere nel solito cliché da manuale motivazionale: la rivincita, la forza di volontà, il “ce l’ho fatta nonostante tutto”. Roba che funziona a livello superficiale, ma che in realtà nasconde una verità molto più interessante.
Quale? Che personaggi come la mia prof, quelli che ti buttano giù più della gravità, sono la gravità. Ma la gravità intelligente: quella che ti tiene a terra per impedirti di volare dietro a cazzate. Una specie di navigatore cosmico che ti dice: “Attento, non è ancora la tua strada. Scava di più.”
Dietro le sberle morali dei “professionisti della gravità” c’è un atto d’amore. Loro non lo sanno, e proprio per questo la cosa è ancora più goduriosa: pensano di umiliarti, invece ti stanno consegnando il manuale segreto del tuo percorso.
Il loro sguardo pesante serve a questo: a dirti “Ehi baby, resta giù, non farti fregare dalle ombre della caverna. C’è di più. Il tuo destino non è la copia carbone di un percorso ordinario. Non sei nato per la trama da rivista patinata né per le verità prêt-à-porter della psicologia spicciola. Sei qui per cercare quella verità più vera, più antica, più universale… e decisamente più figa.”
Quindi: grazie Prof!
Grazie per aver fatto da zavorra, così ho evitato di cadere nella seduzione borghese delle identità, con le solite domande da salotto:
Che lavoro farai? Quanto guadagnerai? Che ruolo avrai? Ti sposerai? Famigliola? Casa al mare? Casa in montagna? Vacanze standard, settimana bianca, capodanno organizzato?
“Tutto è vanità”… all’epoca non lo capivo. Ora sì.
E sa qual è la notizia, prof?
Ho combinato parecchio. Tanto.
E la abbraccio pure.»
Da quando un Maestro di canto è diventato un a n a l i z z a t o r e della voce? (non tutti ovviamente)
Perché i social abbondano di Vocal Coach con sguardi da investigatori — alcuni supponenti, altri inquisitori — pronti a smontare ogni micro-passaggio del cantante malcapitato di turno?
A sinistra il cantante (o presunto tale, secondo loro), a destra loro: i nuovi protagonisti, i tecnici para-medici, para-tutto, che annuiscono, inarcano sopracciglia, fanno facce. Loro sì che sanno.
E ne sanno così tanto che… di mestiere che fanno? Non cantano. Incredibile. Grande aberrazione del nostro sgangherato secolo.
Sono cantanti che non ce l'hanno fatta o che non hanno avuto il carattere sufficiente a sostenere il talento, o come direbbe James Hillman, — Il talento è solo un frammento dell'immagine; molti nascono con il talento della musica, della matematica, della meccanica, ma solo quando il talento è al servizio dell'immagine totale e ha il supporto del carattere adatto a quell'immagine si manifesta l'eccezionalità —
La maggior parte di questi tecnici, infatti, mette sotto torchio i giovani artisti. Perché? Perché i giovani si giudicano, si stritolano, si valutano in ogni contesto. Ma dov’è finita l’eleganza? Dov’è la profondità?
Con “eleganza” non intendo certo qualcosa di snob o di esclusivo, ma quella regalità interiore che si può toccare solo viaggiando in se stessi, usando la voce come strumento di scoperta.
La voce è lo strumento più misterioso che abbiamo. Invisibile, impalpabile, e proprio per questo profondamente legato all’anima.
Un tempo si immaginava, si visualizzava. Oggi la tecnologia ci permette di vedere fisicamente ciò che prima era solo intuito. E va bene così: la tecnologia non è il problema.
Il problema è l’uso che ne facciamo.
Se la tecnologia diventa un nuovo dogma, se costruisce gerarchie e relazioni asimmetriche, se crea paura invece che libertà, allora stiamo tradendo la sua essenza. E anche la nostra.
Come racconta spesso Morelli: la vita nasce al buio, sotto terra, nelle pance, nel mistero.
Ma oggi basta un reel per sentirsi catapultati in una lezione di anatomia vocale. Non più “appoggia lì”, “apriti”, “sostieni”, “visualizza l’infinito”… ma solo corde vocali, epiglotti, tensioni laringee e griglie di controllo.
Conoscere lo strumento è giusto. Ma quando la conoscenza irrigidisce, separa, spaventa… stiamo solo creando altri muri.
Ci identifichiamo con un sistema ancora prima di iniziare a cantare. E così crescono l’insicurezza, il bisogno di essere rassicurati, la paura di sbagliare.
E alla fine: si canta meglio? No.
Lo posso dire con certezza.
Conosco tanti “cantanti” che sanno tutto — cosa mangiare, come riscaldarsi, ogni esercizio per ogni emissione — ma che non sanno cantare.
Non studiano la melodia, ignorano lo spartito, non sanno la parte, soprattutto quando si tratta di interpreti.
E soprattutto: non sanno chi sono vocalmente.
Tutto altro discorso quando siamo di fronte ad un artista giovane e in scoperta, quindi in continua evoluzione e crescita, il che comprende anche la sua voce.
Con il senno di poi siamo tutti bravi, ma chi avrebbe scommesso su un cantante con la "r" moscia?
Chi avrebbe scommesso su un ragazzo con la "s" sibilante o la voce improbabile, a metà strada tra un giovanissimo Eros e non saprei chi.
Molti sono stati “timbrati” sotto le loro potenzialità, con la scusa che “non è sano”, che “non si può insegnare tutto”, che “è meglio non rischiare”, oppure che quel suono non va bene, quel suono non ti fa bene, quel modo non è corretto.
Risultato? Niente gioco, niente scoperta, niente pratica, niente scommesse, niente di niente.
Solo controllo, anche se controllo, spinta sono tra le parole più bannate, nel secolo in cui si banna pur di attraversare.
Ma la pratica è un luogo. È una geografia viva, piena di angoli e possibilità.
Il pianista studia le scale. Il violinista il suono. Il chitarrista la posizione.
Il cantante deve cantare.
Un Maestro è qualcuno che lì, in quel luogo, ci è stato mille volte.
Ha fatto il giro, ha sbagliato, ha esplorato. E da lì ti guida, non da una scrivania o da una lavagna anatomica.
Un Maestro ti rende libero, non dipendente. Ti fa ascoltare, ti mostra, ti lascia scegliere.
Perché non esistono suoni giusti e suoni sbagliati. Esistono i suoni.
E la domanda vera è: cosa serve alla canzone?
Il cantante è l’attore del testo. La tecnica è al servizio dello stile, non il contrario.
Oggi si parla tanto di salute.
Eppure le case discografiche vogliono voci schiarite, tagliate, piallate, come i visi e i pensieri.
Le canzoni vengono pitchate, i suoni esasperati.
Perché un suono più acuto “arriva” di più.
E i cantanti finiscono per inseguire un ideale irraggiungibile, chiedendosi: come faccio a fare quegli acuti?
A quel sistema della “salute” vocale non importa nulla del benessere reale dell’artista. E nemmeno agli artisti che si sono piegati a quel sistema.
Ci vuole misura.
E quella eleganza profonda di cui parlavo all’inizio.
Forse allora non chiamateli Vocal Coach, ma para medici vocali, allenatori pseudo fisioterapisti, specializzati in quel qualcosa che può essere parte del cantare, soprattutto magari quando bisogna affrontare un tour, uno stress continuativo che solleciterebbe lo strumento, ma sempre a corredo di un Maestro di Musica e... di canto!
Ringrazio tutti i miei Maestri. (parte2)
Non sono stati i miei anni migliori.
In molti ricordano i vent’anni, o gli anni del liceo, come un tempo d’oro: la scoperta, i primi amori, la libertà.
Per me no.
Per me, sono stati anni durissimi. Un deserto di fatica, solitudine, incomprensione.
La mattina, avrei preferito tagliarmi un braccio piuttosto che salire su quel 17 affollatissimo che da viale Fratelli Cervi portava al Liceo Scientifico Marie Curie, in Corso Allamano, a Grugliasco.
Mi spiace per Marie Curie — donna straordinaria, luminosa — perché quel posto non le rendeva alcuna giustizia.
Un edificio grigio, su un corso grigio, immerso nei fumi di una periferia senza poesia.
Alle 7:30 del mattino sembrava l’ambientazione perfetta per un film distopico.
Soffocante, spietato, senz’anima.
Avrei fatto evaporare tutto in una nuvola rossa [ cit.]: la scuola, Grugliasco senza la danza, Corso Allamano e i volti che abitavano quel tempo.
I professori, con poche eccezioni, erano adulti spietati, adulti superficiali, adulti incapaci.
Adulti pessimi.
(poco evoluti)
Il mio disagio era profondo, radicato.
Mi si leggeva in faccia. Letteralmente.
Brufoli, comedoni, squame sotto gli occhi.
Mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo.
Mi nascondevo.
Il mio rifugio era uno sgabuzzino vicino alla porta d’ingresso di casa.
Un metro per un metro.
Quel buco era l’unico posto dove riuscivo a respirare.
Avevo paura di tutto.
Terrore, in realtà.
Eppure… quasi nessuno si è accorto di nulla.
Perché?
Perché ero alta. Ero grande. E, a quanto pare, apparivo “sicura”.
Impossibile immaginare che dentro potessi contenere macerie, urla, polvere.
I miei coetanei erano immersi nella vita, e quando sei immerso, è giusto che tu non veda oltre.
Ma gli adulti…
Loro avrebbero dovuto vedere.
Loro, invece, spesso mi schernivano.
Mi giudicavano.
Mi lasciavano lì.
Al mio buio.
Eppure... sono stati anche loro Maestri.
La scuola.
Grugliasco senza danza.
Il corso Allamano.
Tutti quei volti e quelle voci, sono stati parte di una lezione diversa.
Dura.
Crudele.
Ma una lezione.
Mi hanno spinta via.
Altrove.
Lontano.
Selene dice che bisogna benedire i luoghi che ci hanno fatto soffrire.
Perché sono proprio quelli che ci hanno fatto muovere.
E allora oggi benedico anche Torino.
Che allora era brutta, come me.
Che oggi, invece, è diventata bellissima.
Come me.
Ringrazio tutti i miei Maestri. (parte1)
Quando è cominciato tutto questo?
Da piccola. Molto piccola.
Le mie prime due Maestre sono state la Notte… e l’Enuresi Notturna.
Insieme. L’una legata all’altra.
Per anni, fino quasi ai tredici, la pipì a letto è stata una presenza costante. Fastidiosa, certo. Maestra esigente.
Mi ha obbligata a vegliare mentre tutti dormivano, ad ascoltare l’oscurità, a conoscere il volto silenzioso di una casa e di una città addormentata.
Allora non lo sapevo, ma quella “rogna” che mi impediva di andare a dormire dalle amiche, che mi creava imbarazzi e vergogna, era lì per insegnarmi qualcosa.
L’ho capito anni dopo, leggendo un libro meraviglioso. Ma questo è un altro capitolo.
A Grugliasco, in provincia di Torino, non succedeva molto.
Campi di pannocchie incastrati tra i palazzoni, un’atmosfera rurale un po’ opaca, color senape spento.
Poi, un giorno, mia madre prese una decisione folle e visionaria: mi buttò — letteralmente — dentro un’aula di danza.
Lì c’era Marina Bosco.
Una donna frizzante, fuori dagli schemi.
Aveva avuto l’intuizione di creare qualcosa di grande in una cittadina che sembrava piccola, stretta.
Aprì una Scuola di Danza. Che divenne un’Accademia.
Che divenne un Polo.
Che raccolse tre generazioni di bambine, ragazze, donne.
Se oggi a Grugliasco ci sono scuole importanti, bisogna ringraziare quella donna.
Trent’anni fa, ha saputo unire danza, arte, educazione, politiche sociali e inclusione.
Ma non si è fermata lì.
Portò a Grugliasco un Maestro dell’Opera di Orléans: Joseph Ruiz.
Fu un incontro magico.
Il Maestro portò il mondo da noi.
E portò noi nel mondo: accademie, concorsi, viaggi, Francia, Spagna, Milano, i teatri, la disciplina, la visione, la competizione bella.
In una parola: Bellezza.
Marina e il Maestro ci tirarono fuori da una spirale ripetitiva.
Ci mostrarono chi potevamo diventare.
Oltre la scuola.
Oltre il paese.
Perché eravamo nel mondo. E del mondo.
Poi arrivò un altro vulcano: la Maestra di Flamenco, Elisabetta Nesi Moises Fernandez.
Piccola di statura, esplosiva di fuoco e allegria.
Un’altra finestra aperta sul vasto, sul nuovo, sull’altrove.
Noi eravamo le ragazze dell’“Anteprima”.
E quel nome era perfetto.
Eravamo l’anticipazione di un’altra Grugliasco.
Un’altra realtà.
Un’altra dimensione.
Quel nome mi fa pensare ancora oggi agli outfit di Dimensione Danza che ho indossato per anni.
Perché sì, è in quella Dimensione che mi sono salvata.
Lì ho respirato per la prima volta l’aria sottile dell’arte, del tempo dilatato, dello spazio trasformato, di un'altro stato di Coscienza.
Poi, un giorno, il mondo si è rotto.
Un dolore profondo: mia nonna si è ammalata, e con lei siamo precipitati tutti in un piccolo inferno.
Quel viaggio in quell’altra dimensione si è interrotto.
Ma è lì, in quella fessura di mondo, che avevo già visto abbastanza per non dimenticare più.
Ed è da lì che tutto è cominciato, davvero. Grazie Maestri. Grazie. to be continued...
Per chi volesse approfondire il mio punto di vista
La conoscenza, da sola, non conduce mai alla gioia. Mai.
Anzi, può diventare il nostro peggior nemico: ci frammenta in centomila compartimenti, in mille sottocategorie, in una miriade di dogmi.La conoscenza mentale ci allontana dallo stato di coscienza tipico dei bambini, quello della meraviglia.
Più che sapere con la mente, abbiamo bisogno di conoscere attraverso l’esperienza.
La conoscenza mentale crea schemi; l’esperienza rompe i confini.
Un’esperienza autentica della vita abbatte le nostre categorie interiori, dissolve i giudizi e supera le regole.
Finché sentiamo il bisogno di dimostrare qualcosa, siamo ancora prigionieri: delle nostre ferite, della nostra storia familiare, del nostro dolore.
Il desiderio di dimostrare ci intrappola in una gabbia.
E finché restiamo lì dentro, tutta la nostra energia andrà verso il dover essere… invece che verso l’essere.
Idee sulla voce - oltre il corpo - oltre i limiti
La voce è il mio strumento.
Ci gioco, la esploro, ci lavoro da sempre.
Voce parlata, cantata, registrata, modificata, urlata, sussurrata, armonizzata, compressa, bagnata, repressa, accesa... infuocata.
Da bambina sperimentavo con un vecchio mangiacassette difettoso: non cancellava le registrazioni precedenti.
Questo mi permetteva di sovraincidere, come se avessi un multitraccia primitivo.
Ogni sovrapposizione però alzava il tono, e spesso finivo con voci da Chipmunk!
Ho inciso letteralmente milioni di volte.
Ho cantato ogni stile, ogni genere.
Dal vivo, in studio, su videocassette prima ancora che esistesse YouTube.
La voce è uno dei territori in cui mi sono mossa più a lungo e più a fondo.
Posso cantare qualsiasi cosa, registrare qualsiasi cosa.
Mi "innesto" sulla musica, mi fondo ai suoni, mi adatto alle frequenze con una rapidità impressionante.
E questo perché l’ho fatto milioni di volte.
Nel tempo ho aggiunto anche la precisione nell’editing.
Conosco bene i plugin di intonazione — Waves Tune, Melodyne — che uso per produrre, studiare e insegnare.
Con questi strumenti puoi vedere graficamente la voce, come se diventasse una forma geometrica: linee, curve, angoli da rifinire.
Questo aiuta a capire più in fretta, ad apprendere con più profondità.
Per questo mi definisco Produttrice vocale.
Sorrido quando sento nuovi "esperti" credere che basti studiare la fisiologia del tratto vocale per ottenere risultati, portando il canto in un campo para-medico e non artistico, creativo, leggero, libero, ma già in partenza potenzialmente patologico.
Anzi — da produttrice — ti dico che tutta quella teoria, tutte quelle informazioni scientifiche, se non passano dal corpo e dall’esperienza, possono rallentare, bloccare, impaurire, come se le lo strumento canto fosse una specie vaso di cristallo.
La conoscenza, senza la pratica (che è amore, azione, uso, dedizione), non diventa virtù, diventa pedanteria, insegnanti e cantanti incapaci, ma arroganti.
E questo è ancora più vero nel pop e nei suoi fratelli: rock, indie, rap, trap, jazz, punk, blues, swing…
È come voler imparare a nuotare leggendo un libro.
Cavalcare senza cavallo.
Volare studiando le piume.
E cantare è volare.
Volare davvero.
Cantare profondamente ti porta a "vedere", fuori, l’unico strumento che vive dentro.
Diventa qualcosa che va oltre il corpo.
Le paure — quelle classiche da cantante — iniziano a dissolversi.
E resta solo un flusso libero, senza interruzioni.
La rosa fa la rosa e non ci pensa.
L’usignolo fa l’usignolo e non ci pensa.
Il cantante canta. E non ci DEVE pensare.
Questa modalità è una porta aperta verso un mondo che pochi percorrerano, ma che tutti ricercano in un modo o nell'altro.
E' una modalità che possiamo vedere solo se abbiamo il coraggio di andare al di là dell'aspetto superficiale delle cose e della persone, del corpo stesso, scendendo nei piani sottili della vita.
Il vedere - parte prima
Chi mi conosce lo sa: uso spesso
il verbo "v e d e r e".
Per me, vedere è lo scopo della vita.
Non parlo della vista fisica, ma della capacità di reggere la verità.
Perché ciò che non sei pronto a reggere, non ti verrà mostrato.
E anche quando ti viene mostrato, spesso non lo vedi davvero.
Allora, che cos’è “vedere”?
È andare oltre la buccia, oltre la superficie.
È guardare con occhi diversi, con un altro sistema operativo.
Non si tratta solo di osservare ciò che c’è, ma di ascoltare cosa vuole dirti.
È una comunicazione viva, continua, con tutto ciò che ti circonda.
E, col tempo, scopri che non c’è nessuna separazione tra te e il resto del mondo.
Vedere è intelligenza sottile.
Altro che intelligenza artificiale.
È la capacità di partecipare alla vita in modo più profondo, più pieno.
E più vedi, più desideri vedere ancora, in un moto irreversibile, come dice la mia amica Cri.
È un processo che non si ferma, che ti espande passo dopo passo.
Tra tutte le arti, la voce e il canto sono forse gli strumenti più potenti per imparare a vedere.
Perché più vedi, più canti in armonia, non cerchi di vivisezionarti.
E più accetti che la tua voce e il tuo canto non sono lì per renderti famoso o “bravo”,
ma per aiutarti ad evolvere,
più la Musica inizia a parlarti davvero.
Diventare bravi ha senso solo se serve a superare i limiti del corpo,
a riscrivere le regole del tempo e dello spazio.
Perché il corpo non è contenuto nel tempo
e nello spazio:
il corpo *è* tempo e spazio.
E tempo e spazio si possono dilatare,
modellare, trasformare —
e impari a vedere e hai il coraggio di farlo.
Se sei arrivato fin qui a leggere, forse ti starai chiedendo se tutto questo sia follia.
Immaginazione? Suggestione?
Qualche bicchiere di troppo?
Ma chi è in cammino sa bene che è tutto vero.
È concreto, è percepibile, è vivibile.
Le vecchie teorie, le definizioni, le ideologie…
stanno crollando.
È tempo di vedere.
Di vedere i tesori nascosti dietro quella prima pellicola che ci limita a semplici comparse.
È tempo di aprire il cuore.
Tanto — prima o poi — toccherà a tutti.